Riserva
naturalistica dell'Adelasia
Seconda
parte – Carmelo Prestipino
Una
storia millenaria di contese e spartizioni
Dalla
Preistoria al Medioevo
I
diversi rami che formano l'alto bacino della Bormida, detti - da
ponente a levante - Bormida di Millesimo, Bormida di Pallare e
Bormida di Mallare, confluiscono in due ampie aree geografiche
conosciute come Valle della Bormida di Spigno e Valle della
Bormida di Millesimo. Quest'ultima si identifica per la maggior
parte, dal punto di vista amministrativo, col basso Piemonte,
mentre l'altra si estende per un ampio tratto nel territorio
ligure.
Separate nelle loro estreme propaggini da uno
spartiacque attestato sui mille metri circa, esse costituiscono
un ambiente storico-geografico composito, dove l'economia
agricolo-montana dell'alta valle si incontra con l'economia
prevalentemente industriale dei centri maggiori del fondovalle.
L'inesistenza, nel passato come anche nel presente, di una
espressione unitaria nella dimensione politico-istituzionale
rispecchia chiaramente i caratteri di frammentarietà
geografica, etnica e culturale propri di questa terra.
La
collocazione geografica che fece della Val Bormida la porta di
transito fra l'entroterra piemontese-lombardo e il mare ha reso
estremamente complesse le vicende storiche, sviluppando un
modello culturale ampiamente influenzato da apporti
sostanzialmente estranei. Tale ibrido potrebbe forse trovare una
sintesi unitaria solo nella lontana Preistoria: il territorio
compreso tra Piana Crixia e Bardineto ha restituito infatti una
messe copiosa di reperti litici, in particolare asce di selce
levigata del periodo Neolitico. Tuttavia a queste testimonianze
labili, pur se significative, di presenza umana non si è
ancora potuta associare la prova di un possibile insediamento
archeologicamente documentato.
Assai più concreta
appare la situazione relativa all'Età del Bronzo: il
rinvenimento di un ricco giacimento di materiale ceramico a
Millesimo, sul Bric Tana, indica l'esistenza di un cospicuo
nucleo umano. Inoltre, a poche centinaia di metri, in posizione
dominante sulla Valle di Murialdo, svettano le sagome irregolari
di alcuni menhir. Ulteriori richiami alle culture megalitiche
affiorano su un grande masso che sovrasta l'anfiteatro naturale
del Bric Tana, non lontano dal centro medievale della Colla. Il
masso reca evidenti tracce di lavoro umano e presenta, sulla
superficie sommitale, una serie di coppelle disposte a raggiera
che rivelano una conoscenza, sia pure approssimativa, dei punti
cardinali. La sua stessa posizione e la presenza di croci incise
su un lato permettono di ipotizzare che assolvesse a qualche
funzione cultuale: probabilmente quella di ara votiva, punto
focale per una popolazione in possesso di informazioni sui riti
megalitici.
Queste singolari presenze, che potrebbero anche
collegarsi al giacimento archeologico dell'Età del Bronzo,
trovano la più vistosa conferma a pochi chilometri, lungo
il torrente Zemola, a Roccavignale. Qui, nella piana detta delle
Ghiare, campeggia un imponente dolmen a camere multiple.
Purtroppo, la massiccia struttura è parzialmente crollata
e l'unica camera superstite è stata adibita dai contadini
a ricovero di attrezzi agricoli con l'aggiunta di un tetto in
coppi. Il che peraltro non nasconde la vista del più
interessante reperto megalitico dell'intera area valbormidese. La
datazione del dolmen non è ancora possibile: solo un
successivo scavo potrà dire al riguardo una parola
definitiva.
Alla presenza megalitica si unisce spesso
l'incisione rupestre: oltre che sul Bric Tana, la troviamo sulle
vicine dorsali delle colline di Biestro, nelle zone del Bric
della Costa e del Bric Gazzaro. Sulla roccia appaiono figure
antropomorfe, segni scaliformi o simbolici, talora insieme con
croci cristiane che parrebbero voler esorcizzare e
"cristianizzare" i segni precedenti, ritenuti di
origine diabolica o pagana. Attorno ad alcuni di questi segni
incisi il mondo rurale ha intessuto una trama di leggende: ne
sono esempio le "zampe del diavolo" del valico dei
Giovetti a Massimino, la solitaria vaschetta a forma di mortaio
che diede il nome al Bric del Murtè (monte del mortaio) a
Osiglia, la "rocca della zampa", sempre a Osiglia,
luogo di ritrovo annuale per i pastori in un rito che riecheggiò
per secoli una tradizione preistorica, oppure la "zampa
d'Orlan" (piede di Orlando) del Ronco di Maglio a Bormida,
ricordo dell'ipotetico passaggio del famoso paladino. Una
significativa associazione fra megalitismo e incisione rupestre
si trova a Saliceto, sulle pendici del Bric Biolà, dove
due steli recano incisi segni a reticolo e a X. Va infine
segnalato un masso solitario, fittamente decorato con segni
simbolici e croci cristiane, collocato in origine su un valico di
accesso tra la vallata di Stella Santa Giustina e la Val d'Erro,
percorso millenario degli itinerari di transumanza.
La
tradizione di incidere la roccia, forse per motivi propiziatori o
rituali, si è tramandata presso le popolazioni montane
sino a epoche recentissime. Una prova della sopravvivenza di
questi legami culturali con la Preistoria è stata
riconosciuta nelle "caselle", piccoli edifici circolari
la cui tecnica costruttiva ha origine nell'architettura spontanea
di molti paesi mediterranei. Alcune di esse fanno bella mostra di
se sulle pendici del Melogno.
Ma chi furono le genti che
lasciarono queste tracce? Quasi certamente i Liguri, l'enigmatico
popolo che la potenza romana quasi cancellò dal grande
libro della storia. Proprio ad essi, fusisi con le popolazioni
celtiche, dobbiamo il nome dei tre rami della Bormida: il
toponimo del fiume pare legato al culto di Bormanus, o Bormo, il
dio celto-ligure delle "acque calde e spumeggianti"
venerato in un ambito geografico molto vasto che va dalla Francia
al Portogallo.
Le tribù liguri che abitarono il
territorio furono probabilmente quelle dei Ligures Epanteri
Montani, degli Statielli e degli Inganni, le quali furono
coinvolte nel 205 a.C. nelle guerre puniche. Gli Epanteri
Montani, insediatisi nell'entroterra savonese, dovettero
sostenere l'urto delle forze del cartaginese Magone, reduce dal
saccheggio di Genova, unite a quelle dei Ligures Alpini e
Ingauni. Allontanata la minaccia cartaginese, Roma volse lo
sguardo verso le genti liguri: fiere e gelose della propria
indipendenza, esse resistettero valorosamente alla conquista, ma
furono costrette a piegarsi di fronte alla macchina bellica del
nemico. Nel 180 a.C. il console Lucio Emilio Paolo sconfisse gli
Ingauni. Poi, nel 173 a.C., Marco Popilio Lenate sottomise di
nuovo i Liguri distruggendone la capitale Carystum. Nonostante le
sanguinose disfatte, il popolo ligure non si piegò e fu
necessaria un'altra campagna, nel 163 a.C. da parte del console
Sempronio Gracco, per debellarne definitivamente la resistenza.
Completata la conquista militare, i Romani riorganizzarono
giuridicamente e amministrativamente il territorio, che venne
inquadrato nella IX Regione e sottoposto alla giurisdizione del
municipio di Alba Pompeia, iscritto alla tribù Camilia. È
probabile che le zone dell'alta valle, attigue alla Valle del
Tanaro, fossero invece sottoposte al dominio del municipio di
Albigaunum, iscritto alla tribù Publilia. Anche la rete
viaria venne ridisegnata dai Romani: la via più importante
della Val Bormida fu la Aemilia Scauri, fatta costruire nel 109
a.C. dal console Emilio Scauro, che univa il centro di Aquae
Statiellae a Vada Sabatia passando per Piana, Cairo, Ferrania e
Altare.
Unici centri dei quali resti documentazione di questo
periodo parrebbero essere le mansio di Crizia e di Canalicum: la
prima localizzata a nord di Piana, in un'area pianeggiante
chiamata Pareta, dove si sono rinvenuti numerosi frammenti
ceramici e tracce di un insediamento. Per Canalicum si hanno solo
ritrovamenti sporadici, che potrebbero farne individuare la sede
nei pressi della pieve paleocristiana di San Donato di Cairo. Sul
sovrastante Colle di Santa Margherita fu rinvenuto un
interessante busto marmoreo. Un'altra testimonianza dell'epoca è
un cippo in arenaria, attualmente murato nella torre di Porta
Soprana, sul quale si legge: ENNIUS L(UCII) F(ILIUS) FAUSTI(NUS).
La presenza romana viene anche segnalata a Carcare, dove sono
state trovate tombe a tegoloni.
Più interessante è
la piccola ara votiva di Millesimo, conservata presso la
Biblioteca comunale. Si tratta di un altarino di pietra sul quale
compare l epigrafe: M(EMOR) V(OTI) S(USCEPTI) C(AIUS) METTIUS
C(AII) F(ILIUS) CAM(ILIA TRIBU) VERECUNDUS ALBA C(ENTURIO)
LEG(IONIS) D(ECIMAE) GEM(INAE) P(IAE) F(ELICIS) L(AETUS) L(IBENS)
M(ERITO). Sarebbe quindi un altare fatto erigere da un centurione
della X Legione Pia Felice in scioglimento di un voto. Nei
pressi di Piana è stata rinvenuta una terza epigrafe,
anch'essa a seguito di un voto fatto da un certo Flavio Clemente,
militare nella XV Legio Apollinaris, come suggerirebbe il testo:
FLAVIUS CLEMENS MIL(ES) LEG(IONIS) XV APOL(LINARIS) M(EMOR)
V(OTUM) S(OLVIT) L(AETUS). Infine va ricordata la presenza di una
lapide mutila, murata all'interno del Santuario di Nostra Signora
del Todocco, sulla quale si legge: L(UCIUS?) MARIUS.
La
decadenza dell'Impero Romano d'Occidente aprì la strada
alle orde barbariche che percorsero la Via Aemilia Scauri
portando ovunque distruzione e rovina. Le convulse vicende
dell'epoca non permettono una chiara visione della situazione
storica. Unico punto fermo fu la riconquista delle coste liguri
da parte dei Bizantini, che le inquadrarono nella Provincia
Maritima Italorum, difesa sui crinali appenninici da robuste
fortificazioni. Questo Times arginò l'invasione longobarda
dal 568 al 643, quando la Maritima Italorum cadde sotto il
dominio di Rotari che saccheggiò la Liguria da Luni a
Ventimiglia. Completata la conquista, i Longobardi imposero i
loro ordinamenti, gettando le basi del sistema feudale.
Pochissime le testimonianze archeologiche di questo periodo:
abbiamo praticamente solo il rudere di un castrum bizantino
presso la chiesa di San Nicolò di Bardineto, poi occupato
dai Longobardi. Labili tracce di influssi culturali bizantini si
potrebbero trovare nelle dedicazioni a San Nicolò di Bari
e a San Giorgio, il più venerato tra i santi di quelle
genti. Ad essi si contrappose in seguito il culto di San Michele,
patrono delle popolazioni longobarde.
La conversione dei re
longobardi al Cristianesimo diede nuovo impulso al monachesimo
benedettino: rinacque, nel 707 per opera di Ariperto II, il
monastero di San Pietro di Savigliano e sorse, per volontà
di Luitperto, l'abbazia di Gesù Salvatore a Giusvalla.
Queste prime fondazioni monastiche sono il prologo di una parte
importante della storia medievale valbormidese.
La presenza
monastica si accrebbe dopo la conquista franca del 774: a Carlo
Magno si attribuisce infatti la costituzione del monastero di San
Pietro in Varatella, che ebbe ampi possedimenti a Bardineto e
Calizzano,
con le chiese di San Giovanni e Santa Maria. Ma dopo 1'889 i
territori liguri subirono nuove devastazioni: le orde saracene,
favorite dalle discordie feudali, misero a ferro e fuoco Acqui e
l'Albese, distruggendo l'abbazia di Giusvalla nel 936 e
attestandosi nella regione di Tortona intorno al 950. L'invasione
costrinse Berengario II di Ivrea, re d'Italia, a riorganizzare
amministrativamente la Liguria suddividendola in marche. I frutti
non tardarono a venire: nel 967 le truppe di Guglielmo di
Provenza espugnarono il covo saraceno di Frassineto e in tal modo
posero fine alla minaccia dell'Islam sulla Liguria e sulla
Provenza.
Fra
monaci e feudatari
Berengario
II ruppe definitivamente quell'assetto unitario che ricalcava
ancora la struttura della bizantina Maritima Italorum, dividendo
il territorio in tre marche: l'Obertenga, l'Aleramica e
l'Arduinica. Nella Marca Aleramica vennero compresi i territori
di Savona, Acqui e Monferrato. La vita riprese vigore, non più
molestata dalle incursioni saracene: rinascita quanto mai
necessaria se, nel 967, l'imperatore Ottone I, concedendo ad
Aleramo vari possessi, gli cedette anche quelle cortes in
desertis locis che aveva tra il Tanaro, l'Erba e il mare.
La
figura di Aleramo fece fiorire nel tempo una serie di leggende.
Tra le molte spicca quella che lo vede, in origine, semplice
scudiero alla corte di Ottone. Di lui finì per innamorarsi
la bella Adelasia, figlia dell'imperatore, ma il loro sentimento
venne contrastato e i due giovani dovettero trovar rifugio e
felicità tra le selve dell'Appennino ligure. Con la venuta
di Ottone in Italia, Aleramo ottenne il perdono e fu investito
del territorio che avesse potuto percorrere cavalcando per tre
giorni e tre notti. Versione poetica di una vicenda feudale dai
contorni incerti: tuttavia fece salda presa sulla fantasia
popolare, e resiste ancora. Nei pressi di Montenotte,
proprio nel cuore della proprietà della 3M Italia
destinata a Riserva naturalistica, una Rocca porta il nome di
Adelasia perché si dice che lì si siano rifugiati i
due amanti.
Nei desertis locis della marca emergono
finalmente le prime tracce documentarie dei centri abitati: Dego,
Mioglia, Prunetto, Saliceto, Sassello, Giusvalla, Cortemilia.
L'affermazione e il consolidamento della casa Aleramica, da un
lato, e la nascita e l'espansione delle istituzioni monastiche,
dall'altro, procedettero parallelamente e furono strettamente
connessi tra loro. Com'è noto, per la concezione politica
medievale la giurisdizione civile e quella ecclesiastica si
intersecavano in un complesso gioco di rapporti e di funzioni. I
monasteri erano componenti del potere feudale e assolvevano a
compiti precisi nell'organizzazione del dominio signorile.
Nascevano lungo importanti vie di comunicazione o in prossimità
di nodi strategico-territoriali, svolgendo un ruolo politico,
economico e sociale per delega dell'autorità feudale.
Anche gli Aleramici affidarono ai monaci questi ruoli: nel
991 il marchese Anselmo, figlio di Aleramo, costituì il
monastero di San Quintino di Spigno, dotandolo dei beni della
distrutta badia di Giusvalla e di molte terre in Cairo, Dego,
Cosseria, Cortemilia e Levice. Nel 1079 un altro Aleramico,
Bonifacio del Vasto, affidò le terre di "Ferranica"
ai monaci Agostiniani, fondando la canonica di Santa Maria, San
Pietro e San Nicolò di Ferrania, che ebbe il controllo dei
nodi strategici di Calizzano,
Saliceto e Carretto. In questa canonica venne a finire i suoi
giorni Agnese di Poitiers, seconda moglie di Bonifacio, come
testimonia una lapide funeraria. Nel 1111 Bonifacio ampliò
le proprietà della canonica aggregandovi le terre di
Biestro e i diritti su Carcare, Cosseria e Millesimo. Alla sua
morte, avvenuta nel 1130, egli lasciò una fiorente
comunità monastica che estendeva la propria influenza su
molte chiese del Piemonte e della costa.
Ma il dominio
feudale di Bonifacio, già indebolito per la separazione
del territorio monferrina fu diviso fra i suoi sette figli. Nella
ripartizione, le terre di Savona, Noli, Finale, Calizzano,
Millesimo, Cairo e Carretto andarono a Enrico I detto il Guercio.
Questi fu plenipotenziario del Barbarossa alla pace di Costanza
del 1183 e lo seguì alla Crociata: personaggio fieramente
filo-imperiale, quindi, baluardo di quella feudalità che
si contrapponeva alla crescita dei liberi Comuni. Coerente con la
linea del casato, fondò nel 1179 la chiesa-ospedale di
Santa Maria dei Fornelli, posta nella Valle della Bormida di
Pallare e in territorio di Cosseria.
Intanto a Savona e Noli
si intensificavano le spinte verso l'autonomia politica. Con la
morte di Enrico il Guercio i suoi due figli, Ottone ed Enrico II,
si divisero il feudo nel 1185, prendendo il nome di marchesi del
Carretto. Savona si liberò di Ottone attorno al 1191,
costringendolo a ridursi nel Cairese, mentre Noli, spalleggiata
da Genova, acquistò l'autonomia tra il 1186 e il 1193.
Enrico II portò a Finale la capitale del marchesato e
rifondo nel 1206 il borgo di Millesimo, concedendo franchigie
agli abitanti. Sui beni che il monastero di San Pietro di
Savigliano possedeva in Millesimo, acquistati nel 1211, creò
il monastero femminile di Santo Stefano affidandolo alle monache
Cistercensi di Santa Maria di Bitumine (Betton, nella Savoia).
Anche Ottone del Carretto di Cairo, convinto - secondo la
tradizione - da San Francesco, volle fondare nel 1213 un grande
monastero francescano: collocata sul tracciato della Magistra
Langorum, questa fu l'ultima fondazione monastica della Val
Bormida.
A metà del XIII secolo su tutti i principali
nodi viarii del territorio vi era una comunità di monaci.
San Quintino di Spigno controllava la viabilità della
valle verso Acqui, San Pietro di Ferrania quella su Ferrania e
Calizzano,
mentre San Pietro di Varatella vigilava su Bardineto e sugli
accessi alla Val Neva. Altare era sotto il controllo del
monastero di Sant'Eugenio di Bergeggi, le vie di Biestro e del
Melogno erano protette da Santa Maria dei Fornelli, le strade di
Roccavignale e Cengio da Santo Stefano di Millesimo. Sul nodo dei
Ronchi di Osiglia presidiava invece l'Ordine dei Cavalieri del
Tempio, i Templari, monaci guerrieri reduci dalla Terra Santa, i
quali ebbero base presso la chiesa di San Giacomo dei Ronchi. Nel
1245 papa Innocenzo IV confermò a Ferrania il possesso di
ventisei chiese, molti luoghi e un ospedale: il tutto distribuito
tra la costa ligure e il Piemonte. Qualche anno prima, nel 1209,
Ottone del Carretto aveva dovuto cedere al Comune di Asti i
diritti su Cortemilia, Cagna, Torre Uzzone e altre terre.
Le
dispute tra i grandi Comuni e la Repubblica di Genova coinvolsero
i Carretteschi, dando avvio a una serie di trame che si sarebbero
dipanate come Leitmotiv della vicenda valbormidese. La
frammentazione politica dei borghi dell'entroterra, suddivisi tra
gli eredi del feudo, troncò sul nascere ogni possibile
difesa da parte dei signori delle terre. Così, nel 1214,
Genova riuscì a ottenere da Ottone la cessione dei diritti
su Dego, Cairo, Carretto, Vigneroli e nelle metà di
Carcare, Bogile, Ronco di Maglio e Moncavaglione. In questo modo
realizzò un autentico accerchiamento di Savona e Finale,
assumendo il controllo su gran parte degli accessi alla costa. Il
marchese del Monferrato si cautelò, per proprio conto,
comprando da Ottone la quarta parte di Cortemilia, mentre il
Comune di Savona riscattò i diritti di pedaggio di Carcare
e Cairo.
Indebolito da queste vicende, il feudo cairese
andava verso il tramonto. Il marchesato di Finale, invece, retto
con mano ferma dai discendenti di Enrico II, riusciva a
mantenersi unitario. Ma solo fino al 1268, quando Corrado, Enrico
e Antonio, figli del marchese Giacomo, si divisero l'eredità
paterna. A Enrico andarono i beni di Novello e dell'area
piemontese, a Corrado quelli dell'area millesimese, mentre
Antonio ebbe i beni del Finalese, di Calizzano
e della Valle di Pallare. Anche i nodi viarii di Carcare,
Millesimo, Cosseria e Massimino vennero divisi in tre parti,
secondo criteri di pura convenienza. Le labili linee di
demarcazione sancite dalla spartizione durarono, con modeste
modifiche, sino all'inizio del XVIII secolo, pur in un alternarsi
di proprietà, signorie e protettorati. Il quadro che si
venne delineando era totalmente privo di una qualsiasi logica
geografico-politica, poiché gli unici interessi presi in
considerazione dai Carretteschi erano legati a valutazioni
puramente economiche: riscossione di dazi, pedaggi e gabelle
varie.
I confini del nuovo feudo millesimese si
identificarono con quelli delle terre di Cengio, Roccavignale,
Mallare e Cosseria, con Biestro e Plodio. Il feudo finalese si
spinse invece sino alle terre di Calizzano,
incamerando poi Murialdo, Osiglia e la Valle della Bormida di
Pallare, fino a Carcare. Con l'aggravante che i diritti su
quest'ultimo borgo rimasero divisi fra i tre eredi, così
come avvenne anche per Millesimo, Cosseria e Massimino. Ne derivò
una situazione territoriale caotica, dove i centri di Calizzano
e Bardineto, strettamente montani, gravitarono con Murialdo,
Osiglia e Pallare sul Finalese, mentre la giurisdizione di
Millesimo si arrestò sulle dorsali di Biestro e Plodio, ai
confini della Valle della Bormida di Pallare; e Mallare, pur
dipendendo da Millesimo, finì nell'orbita di Finale e
Noli. L'area cairese restò unita sotto Ottone del
Carretto, ma era vincolata dalla sottomissione a Genova.
A
criteri di controllo e protezione dei propri privilegi, più
che a fondate ragioni difensive del feudo, è connessa
anche la struttura dei castelli sparsi sul territorio. Molte
fortificazioni carrettesche sorsero a ridosso dei borghi cinti da
mura, come quelle di Bardineto, Calizzano,
Osiglia, Millesimo, Carcare e Cairo. Altre vennero erette sulle
principali vie di comunicazione, come quelle di Carretto,
Rocchetta di Cairo, Cengio e Murialdo. Talvolta furono
costruzioni minori, con strutture fragili, come il "Castello
del Fregorato" che sulle pendici del Montenotte
vigilava sulle vie per Savona, o quello del Monte Vernaro, a
Mallare, custode delle vie per il Finalese. Unico caso di vera
fortezza feudale fu il Castello di Cosseria, probabilmente perché
di origine alto-medievale, già in declino in epoca
carrettesca. Queste cupe roccheforti, sedi di presidio militare e
di funzionari amministrativi, controllavano ogni sorta di
traffici e commerci, imponendo su tutto dazi e pedaggi. Quando la
riscossione dei tributi non era affidata al signore del feudo,
provvedevano alla bisogna i monasteri, come abbiamo già
visto.
Tuttavia la trama territoriale estremamente
parcellizzata abituò i viaggiatori a sottovalutare queste
"frontiere". Si continuò nei traffici consueti
tra le varie comunità e si svilupparono sentieri e vie
adeguati al principale mezzo di trasporto: il mulo. Pur
ricalcando in qualche punto l'antica viabilità romana, la
mulattiera medievale privilegiò il percorso di Nanga"
che superava gli ostacoli orografici sui valichi più
bassi, ove spesso si incontrava una chiesa o un pilone votivo.
Queste vie evitavano i corsi d'acqua, soggetti alle piene
stagionali, e, quando non era possibile evitarli, utilizzavano
alcuni ponti che la tradizione voleva di origine romana. Così
fu per il nodo di Millesimo, sorto apud pontem; per quello di
Ferrania, posto a ridosso del pontem de Volta; per il "ponte
degli Aneti", sulla Magistra Langarum, erroneamente ritenuta
romana, che si inerpicava per le balze del Carretto. Le
mulattiere furono anche migliorate dai feudatari, pressati dalle
interessate sollecitazioni dei Comuni padani: nel 1206, ad
esempio, Enrico II del Carretto si impegnò a tener libere
le strade che da Asti transitavano sui suoi domini.
Il
rinnovato interesse per la rete viaria e le fondazioni monastiche
portò a una notevole fioritura economica. Verso la fine
del XIII secolo nacque ad Altare l'artigianato del vetro che,
secondo una tradizione locale, fu di origine benedettina. Più
realisticamente si può ritenere che esso, diffusosi lungo
l'arco appenninico tra Genova e Savona, abbia trovato ad Altare
le condizioni ottimali di sviluppo.
Ai Benedettini si
attribuisce in genere il ruolo propulsore di attività
altamente specializzate, come le ferriere e le cartiere. A loro,
sia pure con molti dubbi, si fanno risalire almeno due impianti
di ferriera in Val Bormida: quello di "Ferranica" (da
cui il nome dato alla località, già in funzione
verso la fine dell'XI secolo) e quello dei Ronchi di Osiglia.
All'inizio del XII secolo comparvero invece i mulini e le
gualchiere (impianti per la follatura di feltri e tessuti)
inclusi tra i beni monastici di San Pietro di Ferrania, di Santa
Maria dei Fornelli e di Santo Stefano di Millesimo. I monaci
affiancarono alle antiche tecniche di dissodamento del "debbio",
della "fornellata" e del "ronco" quelle della
coltivazione a terrazze.
Accanto alle migliorate condizioni
di vita delle popolazioni affiorarono i primi segni di rinascita
culturale: i sirventesi dei trovatori allietavano in particolare
la corte cairese, presso la quale soggiornarono a lungo Folchetto
da Romans e Rambaldo de Vaqueiras dedicando ai carretteschi i
loro versi. Anche le gesta di Artù, Lancelot e del Santo
Graal erano note tra i signori dei feudi.
Ancorati agli
antichi privilegi, questi vedevano intanto decadere, nel corso
del XIII secolo, la loro supremazia a mano a mano che cresceva il
potere della classe mercantile, che ben presto li avrebbe
soppiantati: tale fu la sorte dei feudatari di Cairo. Nel 1322
Manfredo IV di Saluzzo riuscì ad acquistare da Manfredino
e Ottone del Carretto le terre del Cairese, segnando con ciò
il definitivo tramonto della dinastia. Ma anche il dominio di
Manfredo ebbe vita breve: quindici anni dopo egli rivendette il
feudo a Ottone, Giacomo, Matteo, Giovannone e Tomeno Scarampi,
ricchi banchieri di Asti, i quali vennero quindi ad assicurarsi
il controllo dei punti strategici tra Asti, Alba e il mare. Si
conservò al contrario immutata la sottomissione alla
Repubblica di Genova di quei possessi acquistati nel 1214.
Non
meno difficile si profilava la situazione dei Carretteschi di
Millesimo e Finale: nel 1390 quelli di Millesimo fecero donazione
delle loro terre a Guglielmo del Monferrato, ricevendole in feudo
dallo stesso. Nel 1393 fu la volta dei Carrettes chi finales i,
che donarono a Teodoro I I del Monferrato le terre di Calizzano,
Massimino, Osiglia, Pallare e Carcare. Mentre i del Carretto di
Millesimo ebbero tuttavia cura di conservarsi Cengio, baluardo
del proprio dominio, i Finalesi si garantirono la fedeltà
di Murialdo mantenendone i diritti.
Modesti possedimenti,
votati comunque a un destino ormai segnato dalle scelte
dinastiche. L'ultima parte del basso Medioevo fu, per queste
terre, un susseguirsi di atti di infeudazione e subinfeudazione,
di governi condominiali, di divisioni e frazionamenti che
produssero un panorama giuridico pressoché inestricabile e
istituzionalmente disintegrato.
Entrano
in campo le grandi potenze
Ai
Carretteschi di Millesimo la sottomissione al Monferrato parve il
male minore di fronte alle mire espansionistiche dei Savoia,
fieri avversari dei monferrina Galeotto del Carretto di Finale,
invece, unificate le sue genti, si alleò con Filippo Maria
Visconti, duca di Milano, desideroso di impossessarsi di Genova e
Savona. Le due grandi città della costa, divise da una
rivalità profonda, vissero momenti travagliati per le
lotte tra le fazioni: nel 1409, nel corso di una ennesima
sommossa, Teodoro del Monferrato fu proclamato signore di Genova
e gli Scarampi di Cairo si affrettarono a giurargli fedeltà.
Teodoro fu costretto ad abbandonare Genova nel 1413, ma sei
anni dopo la Superba dovette piegarsi alle truppe monferrine,
viscontee e finalesi. Tra il Visconti e il Monferrato si stipulò
un accordo nel 1434, in base al quale i feudatari cairesi
poterono scegliere tra le due signorie. Tre quarti del feudo
rimasero col Monferrato, in proprietà di Bartolomeo e
Giovanni Scarampi; il resto, appartenente ad Antonio, passò
sotto il Visconti.
Genova si risollevò lentamente
dalle condizioni disastrose in cui l'avevano prostrata le rivolte
interne. Non appena le fu possibile, riprese la sua politica di
dominio delle riviere e il primo passo fu diretto naturalmente
contro Savona: la città venne presa nel 1440 e il porto
interrato. Restava un'altra spina nel fianco: quel marchese di
Finale che teneva aperte le vie al Piemonte e che si dava alla
caccia delle navi genovesi sul mare. Ma i tempi del castigo non
erano ancora maturi.
L'occasione si presentò nel 1447:
muore Filippo Maria Visconti e subito il doge Giano Fregoso
aggredisce Finale. La guerra divampò violenta,
coinvolgendo tutte le terre carrettesche. Nel 1448 cadde l'ultimo
baluardo, Castel Gavone. Galeotto sfuggì alla cattura
riparando in Francia, dove morì nel 1450. L'anno
successivo suo fratello Giovanni riuscì a riconquistare
Finale con l'aiuto di truppe borgognone.
L'interramento del
porto di Savona e la guerra contro i finalesi determinarono una
crisi economica spaventosa. I traffici marittimi della rivale di
Genova avevano prosperato anche grazie alle vie di comunicazione
dell'entroterra, sulle quali transitavano i prodotti agricoli del
Piemonte e della Lombardia, i manufatti delle ferriere e delle
vetrerie, il legname. L'aggressione genovese ebbe i risultati
voluti: alla fine del Quattrocento la moneta di Savona fu quasi
completamente soppiantata sui mercati da quella genovese. Su tali
vicende sfumarono i sogni di grandezza del marchesato di Finale,
che ormai cozzavano contro la logica della storia. Non erano più
i tempi della conquista armata per i signorotti locali: il gioco
era in mano ai re di Francia e Spagna, mentre in sott'ordine
operavano i duchi di Milano, i Savoia, la Repubblica di Genova,
il Monferrato. Su tutti poi, ma debole e lontano, si ergeva
l'imperatore d'Austria. Un quadro politico tanto complesso venne
ben compreso dagli Scarampi di Cairo che, abili banchieri
interessati ai beni delle antiche comunità monastiche, si
inserirono per tempo nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1401
Antonio Scarampi, scudiero di papa Bonifacio IX, ottenne da
questi la commenda sui beni di San Pietro di Ferrania.
L'istituzione delle commende aveva come finalità
dichiarata la riorganizzazione delle terre appartenenti ai
monaci, ma in realtà ridusse le abbazie al ruolo di
prebende per i rami cadetti delle famiglie nobili. Così ai
del Carretto di Ponzone fu data la commenda di San Quintino di
Spigno, ai carretteschi di Millesimo andò quella di Santa
Maria dei Fornelli. Ai primi del Cinquecento il protonotario
apostolico Bartolomeo Scarampi, già parroco di Cairo, si
assicurò l'usufrutto sui beni di San Pietro di Ferrania e
di San Donato di Cairo.
Nel 1531, poi, si verificò un
evento di grande portata per la Val Bormida: Federico Gonzaga,
duca di Mantova, sposò Margherita del Monferrato, e i due
Stati vennero fusi. Le terre valbormidesi passarono quindi al
ducato di Mantova e i feudatari locali accorsero a ossequiare il
loro nuovo signore.
La scomparsa degli antichi monasteri,
trasformati in commende, non fu l'unico fatto di rilievo nel
quadro sociale. Con l'indebolirsi del potere feudale, dissanguato
dalle lotte continue e incapace di adeguarsi a un modello troppo
lontano dalla sua visione del mondo, acquistò sempre più
forza la borghesia mercantile e artigianale, mentre il popolo, in
cambio di denaro, riusciva a strappare ai feudatari numerose
concessioni. Ai primi atti di "franchigia" seguirono i
documenti di "convenzione" e si svilupparono i codici
legislativi locali che regolavano minuziosamente la vita delle
comunità. All'inizio del Cinquecento quasi tutte le
comunità rurali della valle ebbero i loro Statuti.
Nonostante le varie traversie economiche e sociali, la Val
Bormida visse una notevole fioritura artistica. Ancora una volta,
l'esempio venne dagli antichi monasteri: i grandi affreschi che
adornavano le pareti dei conventi piacquero ai ceti più
ricchi, che fecero decorare numerose chiese con cicli pittorici
di taglio didatticodidascalico. Gli anonimi artisti che
eseguivano queste opere erano latori di una cultura tardogotica
lombarda, formatasi in particolare nella vicina area monregalese.
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Spesso
gli affreschi furono dipinti in chiese collocate sugli assi
viarii, come quelle di Castelnuovo di Ceva, San Martino di
Lignera a Saliceto, San Giovanni di Murialdo, San Nicolò
di Bardineto. Altre volte furono interessate chiese di rilevante
prestigio per la religiosità locale, come la pieve di
Santa Maria Extra Muros a Millesimo e quella di Santa
Maria delle Grazie a Calizzano.
Spesso vennero anche affrescate chiese parrocchiali, come San
Marco di Pallare, la pieve di Brovida, la parrocchiale di
Cosseria. Qualche volta si rispecchiava in quest'arte il
desiderio di grandezza dei committenti, come nel caso di San
Lorenzo di Murialdo, il cui ciclo pittorico evidenzia l'influenza
dei carretteschi finalesi.
Anche la pietra occupò un
suo spazio nell'arte, benché modesto. Gli scultori che
operarono in queste terre furono portatori anch'essi di culture
esterne, come testimonia il timpano di San Lorenzo di Murialdo.
La pietra usata fu l'arenaria locale, indice di una povertà
di risorse finanziarie che non consentiva il ricorso a materiali
più costosi. Bartolomeo Scarampi, nel 1517, volle per il
suo monumento funebre questa pietra povera, ma sopperì
prendendo a modello gli imponenti mausolei rovereschi di Savona.
Estremo tentativo di una nobiltà rurale di riconoscersi
nell'arte sfarzosa delle grandi città? Forse è in
questa ambizione che si trova la chiave di lettura di molte
vicende artistiche valbormidesi.
Si
accentua la presenza spagnola
Ai
primi del Cinquecento la Val Bormida finì al centro delle
contese tra i protagonisti dell'immane scontro che insanguinò
l'Europa. Su questo nodo viario pose gli occhi la Spagna che
progettò una via sicura per le sue truppe: partendo dalla
Marina di Finale, per le Valli della Bormida di Spigno attraverso
il ducato di Milano e la Valtellina, esse avrebbero potuto
raggiungere e domare le Fiandre ribelli. La manovra fu però
contrastata dalla Francia, fiera avversaria degli Spagnoli,
mentre anche i Savoia, interessati ad aprirsi un accesso al mare,
volgevano lo sguardo a Savona.
Genova, dal canto suo,
testardamente protesa a garantirsi le sue gabelle, si sentiva
disturbata dall'autonomia finalese e nutriva ambizioni di
conquista del marchesato, sul quale aveva già messo le
mani, sia pure per poco tempo, col doge Fregoso. La buona
occasione non tardò a giungere. Nel 1546 aveva iniziato a
governare il marchese Alfonso II del Carretto, un tiranno. Il
popolo di Finale si sollevò e le truppe genovesi gli
diedero segretamente appoggio. Alfonso cercò riparo presso
Ferdinando I d'Austria, che lo reintegrò nei suoi
possedimenti. Tornato a Carcare nel 1565, il marchese fece
impiccare i capi della rivolta, catturati con l'inganno, e una
nuova sommossa si scatenò l'anno successivo. Col pretesto
di far cessare i disordini, il re di Spagna ordinò alle
sue truppe di stanza nel ducato di Milano di scendere ad occupare
il marchesato di Finale. Genova si rese conto dell'errore
commesso e corse ad appoggiare le ragioni di Alfonso II presso
l'imperatore d'Austria.
Contemporaneamente i Savoia avanzarono
pretese su Finale accampando diritti dinastici, ma nel 1598 fu la
Spagna che riuscì ad acquistare il marchesato da Andrea
Sforza del Carretto, succeduto ad Alfonso. Con questa vicenda
uscì di scena, invisa ai sudditi e con scarso onore, la
stirpe carrettesca di Finale.
La Spagna si assicurò
quindi le terre di Finale, Carcare, Pallare, Osiglia, Bormida,
Ronco di Maglio, Calizzano
e Massimino; il controllo degli accessi al mare fu totalmente in
sue mani. La situazione non poteva non preoccupare fortemente i
franco-piemontesi. Nel 1636 il conte Nicolò del Carretto
di Millesimo venne fatto prigioniero da Amedeo I di Savoia e
costretto a cedergli Cengio e il suo castello. L'occupazione
piemontese di Cengio divenne una grave minaccia per gli Spagnoli,
che passarono subito alla controffensiva. Il 30 marzo 1639, dopo
una grande battaglia, il generale Antonio Sotelo ricevette la
resa delle truppe franco-piemontesi di presidio al castello e col
successivo trattato dei Pirenei del 1659 le fortificazioni furono
rase al suolo. Con tale demolizione si chiuse anche la storia dei
castelli valbormidesi: ridotti a un ammasso di rovine, rimasero a
ispirare cupe leggende e favole di tesori nascosti.
Consolidate
le sue posizioni, la Spagna si accinse a realizzare lungo la
Valle della Bormida di Pallare l'itinerario progettato. Nel 1666,
per soddisfare le esigenze di comodità dei viaggiatori, ma
soprattutto per agevolare il passaggio di Maria Teresa, figlia di
Filippo IV di Spagna e moglie di Leopoldo I d'Austria, venne
aperta una strada che da Finale, lungo il fondovalle, portava a
Spigno e alla Lombardia.
I viaggi dei nobili non furono gli
unici eventi degni di nota per i valligiani, sottoposti a
continue contribuzioni per i contingenti militari in transito, di
cui ebbero l'obbligo di "bagagliare" le salmerie, e a
pesanti "roide" per la manutenzione della rete
stradale. Le relazioni di supplica al governatore di Milano
evidenziano uno stato di estrema indigenza per le genti della
valle. Alla miseria si associarono le contese: gli antichi
confini feudali, sentiti ora come limiti invalicabili,
provocavano numerose vertenze fra le comunità. In alcuni
casi si trattò di controversie generate da piccoli
interessi (proprietà di zone di pascolo, boschi pubblici
ecc). In altri, di liti sobillate o sostenute dai signori del
luogo per il controllo di una strada o per i dazi su una dogana.
Tutto ciò sviluppò il contrabbando, ultima risorsa
alla povertà, e il brigantaggio, favorito nascostamente
dai signori feudali contro i vicini, oppure dai Savoia, sempre
attivi in ogni trama che toccasse l'entroterra di Savona. A
dispetto della tormentata situazione socioeconomica, arti e
industrie rifiorirono e sui tre rami della Bormida si fece più
intenso il rumore dei magli delle ferriere. Ai primi del
Seicento, nella Valle della Bormida di Millesimo ne funzionavano
sei, in quella di Pallare cinque e alcuni "maglietti",
altre quattro e un "edificio da carta" erano in opera
sul ramo di Mallare. Una ferriera lavorava a Ferrania, un'altra a
Cairo, una terza a Montenotte.
La tecnica di fusione era quella detta "alla catalana",
il metallo non era di altissima qualità, ma aveva comunque
una buona diffusione commerciale. Sulle vie tra Finale e
l'entroterra i mulattieri movimentavano ingenti quantità
di vena, importata dall'Isola d'Elba, e di prodotti finiti
destinati al mercato. Nei boschi della fascia montana si levavano
fitte le fumate delle carbonaie.
Una così vivace
attività parrebbe in netto contrasto col tenore espresso
nelle suppliche al governatore. In effetti, la gente soffriva la
fame non per mancanza di lavoro, ma per la politica economica
seguita dalla Spagna. Per pagare gli acquisti, essa ricorse a una
forte pressione fiscale imponendo dazi e gabelle sui generi di
largo consumo. La ricca borghesia commerciale riuscì a
scaricarne l'onere sui prezzi, e quindi sui consumatori, così
che dell'indubbio benessere prodotto dalle ferriere beneficiò
in larga parte solamente il ceto imprenditoriale. Inoltre, le
truppe di passaggio portarono alla valle, oltre ai problemi
d'ogni genere che è facile immaginare, saccheggi e
malattie. Una violenta epidemia di peste scoppiò nel 1631:
il contagio superò agevolmente i "rastelli"
predisposti dagli ufficiali di sanità e colpì in
modo particolare i centri del fondovalle. La popolazione reagì
al fardello delle sofferenze con la pietà religiosa,
alimentando soprattutto la devozione alla Madonna. Vennero erette
numerose chiese e cappelle, tra cui la parrocchiale di Carcare e
la chiesa della Madonna del Bosco. Sui muri delle case l'arte
popolare eseguì ingenui affreschi raffiguranti Madonne col
Bambino: da una di queste immagini, dipinta nel 1618 sulla parete
di un seccatoio, prese l'avvio una spinta devozionale che portò
alla costruzione del più importante santuario mariano
della Val Bormida.
Nel 1621, infine, sorse a Carcare, per
volontà di Giuseppe Calasanzio, il Collegio delle Scuole
Pie: la prima struttura, e per molto tempo anche l'unica,
dedicata all'istruzione dei giovani, senza distinzione di ceto
sociale. Il Collegio fu un punto di riferimento culturale
importantissimo ed esercitò un'influenza incalcolabile su
tutta la regione.
La
Francia fa debuttare Napoleone
Nel
1702 i valligiani videro passare sulla "via di Spagna"
un superbo corteo di nobili e cavalieri: Filippo IV stava
accorrendo in Lombardia a guidare le sue truppe in difficoltà.
Fu questo l'ultimo grande corteo della dominazione spagnola: nel
1714, con il trattato di Rastatt, Madrid abbandonò il
marchesato di Finale, che venne venduto da Carlo VI d'Austria
alla Repubblica di Genova. Grande fu la delusione di Vittorio
Amedeo II di Savoia, ancora una volta privato dell'accesso ai
porti di Savona e di Finale: delusione ampiamente compensata,
peraltro, dall'ottenimento della Sicilia, dell'Alessandrina e del
Monferrato, che gli consentì di occupare le terre
valbormidesi soggette a quest'ultimo. Egli pose piede anche sulle
terre di Millesimo, Cengio e Cosseria, benché fossero
ancora feudi imperiali (al possesso pieno del contado i Savoia
pervennero solo con la pace di Vienna del 1735).
Le terre di
Massimino, Calizzano,
Osiglia, Bormida, Pallare e Carcare andarono ai Genovesi. E non
fu destinazione delle migliori: Genova smantellò le
fortificazioni finalesi e gravò di tasse i nuovi sudditi.
Nel 1729 scoppiò una sommossa, domata in qualche modo: ma
la protesta riesplose violenta cinque anni dopo.
Nell'entroterra
del marchesato imperversò, nel 1745, Filippo del Carretto,
marchese di Balestrino, al servizio dei Savoia, sempre impegnati
a disturbare il territorio genovese. Azioni senza alcun esito, se
non quello di portare maggiore miseria e discordia tra i
valligiani. Con la fine del secolo, tuttavia, ben altre vicende
preoccuparono i Savoia. Gli effetti della Rivoluzione francese si
fecero sentire oltre i confini e ovviamente il Piemonte si unì
all'Austria per far fronte alla minaccia di destabilizzazione.
Intanto, nel 1792, la Repubblica di Genova si affrettò a
proclamare la propria neutralità sperando di salvarsi
dall'uragano che minacciava di travolgerla. Il provvedimento
risultò quasi inutile, perché i Francesi la
occuparono nel 1793 sino a Finale.
Prendendo a pretesto la
violazione della neutralità ligure, gli Austriaci
occuparono Dego, Cosseria, Carcare, Altare, Mallare e Millesimo.
I Savoia fecero occupare le terre di Millesimo da milizie
popolari, formate da contadini armati alla bell'e meglio. Nel
1793 la gente del contado di Millesimo e del Cairese fu mandata
allo sbaraglio contro le postazioni francesi dei Giovetti e del
Melogno: non occorre aggiungere che ripiegò velocemente ai
primi colpi di fucile. La linea difensiva francese si consolidò
così sui bastioni naturali del Settepani, del Melogno, di
San Giacomo e fino alla rada di Vado.
Nel 1796 gli
Austro-piemontesi affidarono il comando al generale Beaulieu,
mentre sull'altro schieramento assunse la guida delle operazioni
un giovane ufficiale destinato a una folgorante carriera:
Napoleone Bonaparte. L'11 aprile il fronte si mise in movimento.
Un attacco austriaco sorprese il battaglione Rampon sul
Montenotte
e lo costrinse a ripiegare a Monte Negino. Qui i Francesi, consci
del pericolo di sfondamento delle linee e della minaccia su
Savona, si imposero una resistenza a oltranza. L'eroismo di
Rampon e di Fornesy permise a Bonaparte la manovra d'attacco: il
12 aprile le divisioni francesi investirono le truppe austriache.
Gli uomini di Massena e Laharpe sfondarono sul Montenotte,
quelli di Augereau presero Carcare e si spinsero verso Millesimo.
L'indomani, i croati del generale Proverà e i granatieri
del colonnello Filippo del Carretto si ritrovarono asserragliati
tra i ruderi del castello di Cosseria. Investiti da forze
nettamente superiori, caduto Filippo del Carretto, i difensori
capitolarono con l'onore delle armi il giorno 14. Lo stesso
giorno, attaccati dalle forze del generale Rusca, i Piemontesi
abbandonarono la difesa di San Giovanni di Murialdo, aprendo ai
Francesi le porte del loro Stato. Il 15 aprile si concluse la
prima grande battaglia della campagna napoleonica. L'armistizio
venne firmato a Cherasco dai plenipotenziari piemontesi il 28
aprile, e i Savoia uscirono dal conflitto.
La guerra investì
nuovamente la Val Bormida nel 1799: gli Austro-russi la
occuparono fino a Savona, ma furono respinti dai Francesi. Nel
1805 l'agonizzante Repubblica Democratica Ligure fu annessa
all'Impero francese. Si chiuse così un periodo denso di
avvenimenti bellici e di accese passioni politiche. Era finito un
secolo difficile, caratterizzato da un lento, inarrestabile
declino economico.
La
grande crisi economica
Già
nel 1682 la corporazione dei vetrai, non più protetta
dagli antichi privilegi, aveva dovuto riformare i suoi Statuti
per fronteggiare le crescenti difficoltà e adeguarsi alle
nuove situazioni. Nel 1732 gli Statuti ebbero bisogno di altri
aggiustamenti: con l'annessione del Monferrato allo Stato sabaudo
si fece infatti più forte la concorrenza delle vetrerie
del Piemonte, favorite dai Savoia, i quali aggravarono
ulteriormente la situazione verso la metà del secolo
quando vietarono l'esportazione di grano, bestiame e manufatti
artigianali. Per la Valle della Bormida, da sempre abituata a
commerciare col porto di Savona, il colpo fu duro. Le ferriere
della Bormida di Pallare, in area spagnola, beneficiarono
all'inizio del secolo dell'esenzione delle gabelle sul materiale
grezzo, mentre quelle del territorio della Repubblica di Genova
pagavano dazio alla Casa di San Giorgio: col passaggio all'area
genovese nel 1713 entrarono in crisi. Riuscirono a sopravvivere
dignitosamente per qualche tempo soltanto in virtù di un
intenso contrabbando.
Il collasso delle ferriere non fu
evento marginale nell'economia valbormidese: pur lavorando a
ciclo stagionale, esse impiegavano un centinaio di operai ognuna,
tra maestri, garzoni, carbonai, mulattieri. Quanto
all'agricoltura, fonte principale di sostentamento dei
valligiani, dovette affrontare un andamento climatico disastroso.
I due prodotti primari - il grano e le castagne - scarseggiarono
ben presto per le gravi gelate invernali. Le prime avvisaglie si
ebbero già verso la fine del XVII secolo: poi le gelate
dell'inverno 1719 provocarono forti carestie, che si ripeterono
nel 1723. La punta massima fu raggiunta nel 1748, quando le
gelate e le nevi iniziarono a ottobre per terminare nel maggio
successivo. La carestia del 1763, causata da un'ennesima gelata,
si accompagnò anche a scosse di terremoto. Un altro
momento terribile fu nel 1799.
Sulle popolazioni già
così provate dalle calamità naturali si abbatterono
i flagelli tipici delle guerre: ai saccheggi del marchese di
Balestrino nel territorio genovese si aggiunsero quelli dei
briganti e degli sbandati che, senza distinzioni di dominio,
commisero soprusi e violenze in ogni borgo. A fronte di questa
situazione Genova ordinò alle comunità locali di
formare una propria milizia, il che non evitò alla regione
di cadere nel marasma totale. Alle devastazioni portate dalle
truppe francesi per spegnere alcune sommosse si sostituirono
quelle degli Austrorussi, che completarono il disastro. Troppo
spesso i parroci, nel registrare i decessi, dovettero scrivere:
"Fame obiit": la più elevata mortalità si
ebbe nel 1800, quando alla carestia si accompagnò una
pestilenza. Ai primi dell'Ottocento la popolazione valbormidese
era scesa di circa il 26 per cento rispetto agli inizi della
guerra.
In un secolo tanto tormentato fu naturale, per i
valligiani, cercare conforto nella fede. L'umile affresco dipinto
nel 1618 sul muro di un seccatoio in una valle deserta, cui
abbiamo già accennato, fu fatto oggetto di una intensa
devozione, tanto che la comunità di Millesimo commissionò
nel 1726 all'architetto Gio Batta Pugno un progetto per la
costruzione di una chiesa. L'edificio venne consacrato nel 1727,
ma i lavori proseguirono fino al 1794. L'opera rimase incompleta:
tuttavia la chiesa della Madonna dei Tre Fonti, poi detta Madonna
del Deserto, era ormai divenuta meta di pellegrinaggi annuali,
provenienti da tutte le valli. Sorte opposta toccò ai beni
degli antichi monasteri. I possedimenti della commenda di
Ferrania furono al centro di una vertenza tra gli eredi degli
ultimi commendatari. Il Tribunale regio di Torino decretò
che fossero assegnati all'Ordine Mauriziano, che però se
ne disinteressò completamente e, alla fine del secolo, le
terre della commenda erano allo sfascio. Anche il Collegio delle
Scuole Pie di Carcare conobbe le sue traversie: nel 1798 la
Repubblica Democratica Ligure soppresse le congregazioni
religiose, ma i Padri Scolopi rimasero sul posto. Nel 1801 il
Collegio fu riaperto ai convittori dal padre Giuseppe Carosio che
lo diresse anche quando, nel 1811, l'istituto venne aggregato
all'Università di Genova.
Il
nuovo riassetto territoriale
Con
l'annessione all'Impero francese l'entroterra di Savona si
ricollegò finalmente al suo porto naturale. Il territorio
fu inquadrato nel Dipartimento di Montenotte,
che comprese le terre del Savonese, dell'Acquese, parte di quelle
del Monregalese e la zona di Oneglia. Per la prima volta, dopo la
dissoluzione della Marca Aleramica, la regione recuperò
così un assetto giurisdizionale logico. Venne divisa in
Circondari che, a loro volta, si suddivisero in Cantoni.
Capoluogo del Dipartimento fu Savona: le terre valbormidesi
fecero capo ad essa e ai Circondari di Ceva e di Acqui.
Le
terre del contado millesimese furono unificate nel Cantone di
Millesimo, Circondario di Ceva. Ai borghi dell'antico feudo
imperiale, cioè Cosseria, Cengio, Rocchetta di Cengio,
Roccavignale, Biestro e Plodio, vennero aggiunte le terre di
Carretto e Rocchetta di Cairo, mentre sul versante piemontese la
giurisdizione si estese a Montezemolo e Castelnuovo di Ceva. Più
rispondente a criteri geografici fu il Cantone di Spigno,
Circondario di Acqui, che impose la sua giurisdizione a Piana e
Cagna. In questo Circondario venne incluso anche il Cantone di
Dego, comprendente le terre di Mioglia e Pareto. Il Cantone di
Cairo, Circondario di Savona, copriva il bacino dei due rami
della Bormida: quelli di Mallare e di Pallare. Comprese quindi i
centri di Carcare, Altare, Mallare, Pallare e Bormida.
Quest'ultimo borgo, essendo stato per secoli parzialmente
indiviso con Osiglia, ebbe vincoli giurisdizionali anche nel
Cantone di Calizzano,
Circondario di Ceva, che si estese sulle terre di Osiglia,
Murialdo e Bardineto. Massimino, geograficamente collocata nella
Val Tanaro, fu unita al Cantone di Ceva.
Questo assetto
territoriale ebbe però soltanto valore amministrativo,
dato che ogni decisione politica veniva presa nel capoluogo del
Dipartimento. Qui Parigi mandò un funzionario lungimirante
e capace: il prefetto Chabrol
de Volvic. Egli fece condurre una ponderosa
indagine sullo stato del Dipartimento: la Statistique des
Provinces de Savone, d'Oneille, d 'Acqui et de partie de la
Province de Mondovi, che resta tuttora un modello insuperato di
analisi storico-amministrativa.
Individuate le esigenze
primarie del territorio, il prefetto passò all'azione. Sua
prima cura fu quella di assicurare al porto di Savona un adeguato
sistema viario: le comunicazioni transappenniniche vennero
realizzate con la strada che da Savona per Lavagnola e Montemoro
raggiungeva Cadibona, da dove scendeva nella piana di Carcare,
biforcandosi verso Acqui e Alessandria, da un lato, e
sostituendo, dall'altro, l'antica e malagevole mulattiera per
Ceva verso Torino. Anche Finale venne collegata a Calizzano
con una nuova strada. Il nuovo assetto viabilistico rivoluzionò
le prospettive di sviluppo di quasi tutti i paesi
dell'entroterra. Persero d'importanza i valichi del San Giacomo,
a detrimento di Mallare, e del Melogno, che portò
all'emarginazione di Bormida e Pallare; l'itinerario Castelnuovo
di Ceva-Finale sparì quasi del tutto, sacrificando
Murialdo e Osiglia. Al contrario, ricevettero nuovo impulso i
centri di Altare, Carcare, Cairo e Millesimo. La rete viaria
dello Chabrol
rispondeva però perfettamente alle esigenze dei tempi,
alla situazione economica e alla geografia della valle, tanto da
giungere pressoché immutata fino ai giorni nostri. Le
terre della commenda di Ferrania rimasero isolate, ma si pensava
che avrebbero ricevuto una grande spinta da un altro progetto
avveniristico del conte
Chabrol: una idrovia che, con un sistema di
chiuse, passando a Ferrania e Bragno, avrebbe collegato Savona
con la Bormida di Spigno e la pianura padana. Il grande progetto,
in grado di aprire a Savona orizzonti vastissimi, non ebbe
purtroppo corso: la caduta dell'Impero francese ne decretò
la fine.
Le antiche ferriere, benché tecnologicamente
superate dalle nuove lavorazioni con altiforni, ripresero a
prosperare anche grazie al blocco continentale inglese. Nell'alta
valle furono in attività una ventina di impianti, cui
vanno aggiunti i numerosi martinetti e i maglietti, spesso
incorporati nelle strutture dei mulini. In ripresa anche le
vetrerie di Altare, che all'inizio del periodo francese davano
lavoro a 150 persone, suddivise su sei forni: nel 1822 i forni in
servizio erano ben undici. Questa intensa attività
comportò ovviamente un notevole impiego di carbone
vegetale, con conseguente lavoro per molti carbonai.
Anche
l'agricoltura, tradizionalmente legata alla produzione di
castagne, grano e vino di bassa gradazione, ebbe un risveglio.
Nei fondi vallivi apparve la bachicoltura: la canapa locale fu
trattata in alcune filande, però con risultati di scarsa
qualità. L'incidenza più radicale si rivelò
tuttavia quella portata nelle riforme amministrative:
l'istituzione di uno Stato Civile, sino a quel momento demandato
alla Chiesa e al clero, modificò totalmente le abitudini
delle comunità. Ai maires spettò il compito di
amministrare anche questi aspetti della vita sociale. La
soppressione degli ordini religiosi nel 1810 affidò alle
comunità la gestione di ogni attività, civile e
religiosa. Tale soppressione si inquadrò nello scontro che
contrappose Napoleone al papa Pio VII per la sovranità
spirituale e temporale, avocata a se dall'imperatore in un
ritorno di cesaro-papismo di medievale memoria. Entrambi i
protagonisti dello scontro vissero momenti importanti nelle terre
della Val Bormida: nel 1796 dal Montenotte
il primo spiccò il volo per la sua avventura di gloria;
nel 1809 l'altro, suo prigioniero, scese a Millesimo dove
pernottò tra le acclamazioni della folla, a dispetto della
segretezza pretesa dai Francesi. Raggiunse poi Carcare e infine
Savona, dove rimase, sempre in stato di cattività. Il
passaggio del papa da Millesimo e Carcare fu l'ultimo grande
evento della vicenda napoleonica per la Val Bormida: il Congresso
di Vienna del 1815 consegnò le terre liguri ai Savoia.
La
scomparsa dell'antica Repubblica e l'annessione al regno di
Sardegna rappresentarono un fiero colpo per Genova, che lo
accettò con molto malanimo. Ma anche i Valbormidesi non
furono particolarmente gratificati dal nuovo quadro politico. Il
ritardo tecnologico accumulato dalle attività artigianali,
non più protette da privilegi, li espose a violente crisi
economiche. A farne le spese furono soprattutto le vetrerie:
dilaniata da lotte interne, l'antica Università dell'Arte
Vitrea fu soppressa nel 1823 dal re Carlo Felice. Rimasero in
funzione cinque forni che, svincolati da ogni remora statutaria,
si danneggiarono a vicenda. In questo ambiente disgregato maturò
l'idea di unire tutte le forze disponibili, dando vita, nel 1856,
alla Società Artistico Vetraria, a struttura cooperativa.
Il primo impianto utilizzato dalla SAV fu quello messo a
disposizione dall'avvocato Pietro Lodi.
Lineare nel suo
costante declino, rallentato solo dalla parentesi francese, fu la
vicenda delle ferriere. La tecnica del basso fuoco catalana,
ancora in uso, richiedeva quantità esorbitanti di legname,
provocando gravi danni al patrimonio boschivo della valle. Posero
un freno al depauperamento delle foreste le regie patenti di
Carlo Alberto del 1833, che cercarono di salvaguardare le selve
appenniniche imponendo pesanti vincoli burocratici. Il che,
ovviamente, andò a influire in negativo sull'attività
degli impianti industriali. La tecnica del basso fuoco, per di
più, era stata già superata dagli Inglesi che
adoperavano il coke. E proprio con gli Inglesi i Savoia
stipularono, nel 1841, una convenzione che riduceva i dazi
sull'importazione del ferro britannico. La mazzata definitiva
giunse con la riforma doganale e l'adozione del libero scambio,
volute dal ministero Cavour nel 1858.
Le scelte politiche
sabaude erano state precorse dagli industriali del ferro. A
Genova, i fratelli Balleydier impiantarono, nel 1832, una
fonderia; vent'anni dopo l'inglese Taylor e il piemontese Prandi
diedero vita a un grande impianto che prese il nome di Ansaldo; a
Savona, il savoiardo Tardy e il tedesco Benech attrezzarono una
ferriera, ma già a Ferrania era sorto, nel 1824, un
modesto impianto per la lavorazione del minerale.
La drastica
riduzione di consumo di legname ceduo trovò uno sbocco
economico nella produzione di botti, barili e ceste. L'attività
delle cesterie fu particolarmente vivace, così come
l'esportazione di pali da vigna verso il Monferrato.
L'agricoltura, dal canto suo, non ebbe particolari innovazioni,
se si eccettua l'avvio della coltivazione della patata che
avvenne verso la metà del secolo. Nella tenuta di Ferrania
- cioè nelle terre dell'antico monastero - ereditata nel
1848 dai marchesi de Mari, si cominciarono a sperimentare
tecniche di zootecnia e di rotazione dei coltivi. Questa
agricoltura lenta a rinnovarsi dovette sopportare il peso
maggiore dell'economia della valle. Una parte dell'onere ricadde
sui mulini, le segherie, le attività estrattive (cave di
calcare e di arenaria da costruzione a Rocchetta di Cairo,
Millesimo e Biestro): i risultati di tutte queste attività
si rivelarono peraltro assai limitati, avendo esse come
destinazione il modesto mercato locale, quindi con scarse
ripercussioni sulla situazione complessiva.
L'incremento
demografico della prima parte del secolo aggravò lo stato
di crisi: ebbe inizio il periodo dell'emigrazione. I Valbormidesi
cercarono nel Nuovo Continente, novella terra promessa nei sogni
del popolo, una speranza di miglioramento o un futuro meno amaro.
Mete tradizionali dell'esodo: la California, l'Argentina e
l'Uruguay. A peggiorare la situazione scoppiò nel 1888 una
epidemia di colera e si verificò nel 1900 una disastrosa
alluvione.
L'unità politico-amministrativa del
territorio fece sentire i suoi benefici influssi verso la metà
del XIX secolo. La grande via di trasporto sognata dal prefetto
Chabrol
si realizzò concretamente con la costruzione di una strada
ferrata tra Savona e Torino e diramazione verso Acqui
sull'importante nodo di San Giuseppe. L'inaugurazione dei due
tronchi avvenne nel 1874 e segnò il passaggio a una nuova
era. Sei anni dopo, proprio a ridosso della ferrovia, andò
a coagularsi un'antica attività artigianale diffusa a
Roccavignale e Cengio: la preparazione di polvere da sparo, fatta
in piccoli laboratori sparsi, lasciò il posto a un
impianto, pur se modesto, per la produzione della dinamite. Se
sul piano economico il XIX secolo segnò un periodo di
decadenza, di ben diverso respiro furono le vicende culturali che
caratterizzarono la vita valbormidese di quegli anni. Le idee
portate dalla Rivoluzione avevano attecchito in particolare tra
le classi più colte, ovunque si manifestavano segni di
scontento e di rivolta, sempre domati dalle autorità. Dopo
l'infelice esito dei moti piemontesi del 1821, gli esuli di
Santorre di Santarosa trovarono ospitalità a Cairo grazie
al capitano Celso Stallani e ai suoi amici. Il terreno propizio
al risveglio patriottico fu preparato, in queste terre, dal
Collegio delle Scuole Pie di Carcare, dal quale erano sempre
usciti gli intellettuali e gli amministratori locali più
preparati. Aperti alle idee di rinnovamento e di progresso, e
accusati spesso di giansenismo dai Gesuiti, gli Scolopi si
inserirono profondamente nello spirito innovatore del tempo,
tanto da costituire in Carcare un autentico focolaio
risorgimentale. Emersero due personaggi importanti: padre Gio
Batta Garassini e padre Atanasio Canata. Garassini fu rettore del
Collegio e della Provincia Ligure Scolopica; Canata, animato da
grande passione civile, partecipò agli avvenimenti
dell'epoca e divenne maestro di grande prestigio. Tra i suoi
allievi spiccò Giuseppe Cesare Abba, patriota garibaldino
e scrittore, che partecipò alla spedizione dei Mille. È
tradizione comune che alcuni versi dell'inno composto da Goffredo
Mameli, poi divenuto inno nazionale, siano stati aggiunti proprio
dal Canata sull'opera dell'amico, ospite a Carcare. Dalle Scuole
Pie uscì anche, nel 1824, un volume fondamentale: La
Ragion della Lingua, in cui padre Domenico Maurizio Buccelli
espose le linee principali di una riforma scolastica che
influenzò poi la rifondazione dell'ordinamento didattico
nello Stato sabaudo. In campo scientifico si distinse il
calizzanese Filippo Ighina, precursore della ricerca
archeologica, noto e stimato in Italia e all'estero, che dotò
il Collegio di un grande Museo preistorico.
Grazie a questi
uomini di cultura, la fama delle Scuole Pie di Carcare crebbe
attirando allievi anche dalla classe borghese di Genova. Ernesto
Rayper vi entrò nel 1849; tornò a Carcare verso il
1860 e con lui vennero Alfredo D'Andrade, portoghese, Serafino De
Avendano, spagnolo, il genovese Tammar Luxoro e tanti altri. Tra
il verde delle campagne essi fecero nascere il movimento
pittorico della "Scuola Grigia", che portò
all'Esposizione di Parigi del 1867 Paese sulla Bormida del
D'Andrade.
Il fermento culturale fece approdare a Carcare un
altro protagonista del suo tempo: Anton Giulio Barrili,
giornalista e romanziere, legato a Garibaldi da antica amicizia
ed eletto deputato alla Camera nel 1866. Da lui e dagli altri che
abbiamo nominato venne influenzata la vita sociale in ogni campo:
così nacque a Cairo, nel 1861, propugnata e voluta da
Abba, la Società Operaia di Mutuo Soccorso, cui si ispirò,
nel 1885, la gente di Millesimo per dar vita alla Società
Operaia Agricola di Mutuo Soccorso. Uomini della Val Bormida
parteciparono inoltre alle imprese garibaldine.
Tanta
vivacità culturale fece da prologo a una vicenda storica
che doveva trovare terreno fertile, nel Novecento, per la
rinascita economica della valle. Le premesse erano date
soprattutto dalla realizzazione della ferrovia: nelle grandi
piane del fondovalle, utilizzate in passato per l'agricoltura e
attraversate ora dai binari della Torino-Savona, si installò
un'attività industriale dai caratteri prettamente moderni,
quella delle trasformazioni chimiche.
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